I mari cinesi, i conflitti geopolitici e la nuova leadership

South-China-Sea

I mari che costeggiano la Repubblica Popolare Cinese hanno un’importanza strategica difficilmente sopravvalutabile e il paese sta assumendo un atteggiamento maggiormente aggressivo nel rivendicare i propri diritti o presunti tali. Non tutti sono convinti si tratti, però, precisamente di una strategia studiata a tavolino.

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Fonte: Limes

   La Cina ha da tempo in corso con il Giappone una disputa sulle  isole Senkaku (in giapponese) o Diaoyu (in cinese), nel East China Sea. Le isole sono sostanzialmente disabitate, ma le acque che le circondano sono ricche di pesce e molto probabilmente di risorse naturali (petrolio e gas). Il Giappone le controlla dal 1885 (tranne per un breve periodo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante il quale furono amministrate dagli USA). La Cina, però, sostiene che facciano parte del proprio territorio sin dal XIV secolo e di averne perso il controllo soltanto a causa dell’imperialismo giapponese. Il Giappone replica che l’interesse cinese si è riacceso soltanto dopo le prime esplorazioni per verificare la presenza di risorse energetiche. A complicare ulteriormente il quadro  si aggiungono le rivendicazioni sulle isole di Taiwan. Stato creato dalle forze sconfitte durante la rivoluzione maoista, i cui territori sono a loro volta rivendicati fortemente dalla Repubblica Popolare.

La disputa sulle isole del  Senkaku/Diaoyu si è riaccesa a Luglio e da allora un’escalascion di provocazioni reciproche ha fatto crescere la tensione tra la seconda e la terza economia mondiale. La contesa territoriale, al momento, sembra costare maggiormente al Giappone, la cui economia in crisi ha nel mercato cinese il suo principale e migliore cliente. Dall’11 Settembre, quando il governo giapponese ha annunciato l’acquisto dei tre isolotti principali del piccolo arcipelago, fatto a cui la Cina ha reagito inviando nelle acque contigue un contingente di 7 navi militari, ad oggi; le esportazioni giapponesi verso la Cina sono calate dell’11.5% a causa dell’astio dei consumatori cinesi verso il paese, spesso percepito ancora alla luce della passata storia imperiale.

Fonte: Le Monde diplomatique
Fonte: Le Monde diplomatique

La forte tensione con il Giappone nell’East China Sea faceva, quanto meno, sperare in uno stallo della situazione nel probabilmente più importante South China Sea. Il tratto di mare, oltre ad essere ricco di risorse naturali, è un punto di passaggio centrale per i traffici economici mondiali. Attraverso l’importante rotta commerciale passa circa un terzo del commercio mondiale e le acque della regione sono storicamente fortemente conteso tra i paesi dell’area. Dispute a cui si sommano i forti interessi delle maggiori potenze mondiali.

La Cina aveva suscitato un vespaio a Novembre, introducendo i nuovi passaporti. La mappa stampata su di essi rappresentava, infatti, i territori e i tratti di mare contesi come appartenenti esclusivamente alla Repubblica Popolare. La contesa con il Vietnam e l’India era, poi, riesplosa all’inizio di Dicembre a causa delle esplorazioni energetiche nel tratto di mare. Il Vietnam ha accusato un peschereccio cinese di aver tagliato volontariamente un cavo sismico di un vascello che esplorava i fondali del Golfo di Tonkin alla ricerca di petrolio e gas. Il paese ha annunciato di conseguenza l’intenzione di pattugliare maggiormente le acque della zona e l’India, in strette relazioni economiche con la compagnia petrolifera del paese (Petro Vietnam), ha dichiarato di star considerando l’invio della marina a protezione dei propri interessi.

Il crescente potere navale dell’India è un’ulteriore fattore di tensione nell’area. Storicamente le dispute con la Cina si erano focalizzate maggiormente sui confini terrestri e l’esercito del paese si era fondato quasi esclusivamente sulle forze terrestri ed aere. L’India di recente ha, però, fermo restando una preponderanza delle altre tipologie di forze armate, iniziato ad investire maggiormente nella creazione di una forza navale significativa, anche in risposta ai forti investimenti e progressi della Repubblica Popolare nel settore.

La marina Indiana, al momento, ha un personale complessivo ridotto (60000 persone) e un budget annuale (7 miliardi di dollari) che è circa un quarto delle risorse messe a disposizione della China’s People’s Liberation Army Navy. I vascelli di maggior prestigio della marina indiana sono una portaerei e 14 sottomarini diesel (Russi o Tedeschi). Il paese ha, però, di recente incrementato i propri sforzi per acquisire tecnologia navale e incrementato i budget dedicati. Nel 2000 il budget della marina rappresentava il 15% delle spese militari totali del paese, quest’anno è salito al 19%. L

INS-Arihant-Prepars-for-Sea-Trials (1)India, inoltre, sta effettuando importanti test in acqua di un sottomarino nucleare sviluppato in proprio. E aggiungerà, entro i prossimi due anni, alla propria flotta, una seconda portaerei (acquistata dalla Russia) e moderni sottomarini di produzione Francese. Oltre all’acquisto dagli USA di aerei maritmi avanzati, in grado di bloccare navi ed intercettare sottomarini, la cui consegna è prevista per il prossimo anno.

Ground crew check a J-15 fighter jet on China's first aircraft carrier, the Liaoning.La flotta indiana resta, in ogni caso, molto ridotta. La Repubblica Popolare ha negli anni accresciuto in modo lento, ma deciso, i budget militari e avviato una profonda riforma e un deciso riammodernamento delle proprie forze armate, puntando molto sulle forze navali. Proprio di recente ha sviluppato in proprio il primo caccia in grado di decollare e atterrare su una portaerei, suscitando l’attenzione dei vertici militari di tutto il mondo. Nonostante ciò, la piccola flotta Indiana potrebbe rivelarsi molto importante per gli equilibri della regione. I paesi dell’area interessati dalle dispute territoriali hanno spesso capacità navali quasi inesistenti. Se si escludono gli Stati Uniti e la Cina, solo il Giappone, la Corea del Sud e, forse, Taiwan possiedono una potenza navale paragonabile a quella indiana. L’India potrebbe giocare un ruolo chiave soprattutto in termini di alleanze strategiche con altri attori dell’importante zona geo-strategica.

La Cina non si lascia, però, intimorire. Un editoriale apparso, in risposta alla ventilata alleanza Vietnam-India in difesa degli interessi energetici nel Mar Cinese Meridionale, sull’organo di stampa ufficiale del paese, Global Times, si legge: “È chiaro che tale cooperazione tra le imprese indiane e vietnamite nel Mar Cinese Meridionale è motivata più dalla politica che dagli interessi economici… New Delhi vuole complicare ulteriormente la questione e cerca di immobilizzare  la Cina nell’area in modo da ottenere il dominio negli affari in tutta la regione.”

La repubblica Popolare ha, però, allarmato i governi mondiali, più che per le dichiarazioni, per una recente decisone della Provincia di Hainan. La provincia del sud del paese, responsabile dell’amministrazione del South China Sea, ha introdotto nuove regole, secondo le quali le autorità cinesi reclamano il diritto di ispezionare le navi di passaggio nel tratto di mare, come si accennava centrale per i traffici mondiali. Le nuove regole sono apparse come un modo ulteriore e aggressivo per ribadire la posizione del paese, che reclama la totale sovranità sull’intere acque. Il Ministro degli Esteri del Paese ha, infatti, ribadito che il paese si oppone alle esplorazioni nelle zone contese e reclamato la sovranità ‘incontrastata’ sull’intero Mare Cinese Meridionale.

Wu Shicun, direttore affari esteri della provincia di Hainan, ha, però, specificato che le navi cinesi saranno autorizzate ad ispezionare i vascelli in transito soltanto se questi sono coinvolti in attività illegali. Precisazione che non ha rassicurato molto, visto la vaghezza delle nuove regole.

Fonte: The New York Times
Fonte: The New York Times

Wu, d’altra parte, ha chiarito, a sua volta, che la Repubblica Popolare continua a reclamare tutti i territori all’interno della cosiddetta “nine-dash line”, ovvero una mappa disegnata alla fine degli anni 40, e fortemente contestata a livello internazionale, che assegna al paese circa l’80% del South China Sea. Le nuove regole secondo il direttore verranno applicate a tutti i territori e le acque comprese in questo spazio.

Il quadro della situazione geopolitica dei mari cinesi appare complesso e questo senza tener conto delle grandi potenze esterne con preponderanti interessi nell’area. La Russia è particolarmente attiva nella regione. Oltre ad una disputa territoriale con il Giappone sul controllo di alcune isole del nord (Vedi Carta N.1), ha stretto legami importanti con alcuni paesi del sud est asiatico (ad esempio il legame storico, ereditato dalla Guerra Fredda e rinnovato più volte, con il Vietnam). Il paese tende, in ogni caso, sempre più a proiettarsi verso la strategica area Pacifica; e mantiene legami competitivi e collaborativi, al contempo, sia con gli USA che con la Cina. La Russia e la Cina sono tra i paesi fondatori dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, organismo internazionale dalla crescente importanza in Asia centrale e per gli equilibri mondiali. D’altra parte, la Russia potrebbe aver forti interessi economici in una maggiore cooperazione con gli USA, oltre a quelli politico-strategici proprio in chiave di contenimento della crescente potenza cinese nel cuore della massa asiatica.

Gli USA hanno, poi, esplicitamente codificato, più volte durante la presidenza Obama, e di recente in un importante documento di programmazione strategica (Sustaining U.S. Global Leadership. Priorities for 21 Century Defense), la volontà strategica di spostare l’asse di attenzione e l’impegno militare verso l’area del Pacifico. Obama ha, ad esempio, affermato chiaramente, durante un discorso al parlamento Australiano a fine 2011[1]: “Con la maggior parte del potere nucleare del mondo e più di metà del genere umano, l’Asia in gran parte definirà se il prossimo secolo sarà segnato da conflitti o dalla cooperazione… In qualità di Presidente ho quindi preso una decisione deliberata e strategica… gli Stati Uniti giocheranno un ruolo più ampio e di lunga durata nel plasmare questa regione e il suo futuro… ho ordinato al mio team di sicurezza nazionale di rendere la nostra presenza e missione nell’Asia-Pacifico la priorità principale… Preserveremo la nostra unica capacità di proiettare potenza e scoraggiare le minacce alla pace… Gli Stati Uniti sono una potenza del Pacifico e siamo qui per rimanervi. In realtà, stiamo già modernizzando lo schieramento difensivo dell’America nell’Asia-Pacifico… credo che si possano affrontare insieme sfide comuni, quali la proliferazione e la sicurezza marittima, e la cooperazione nel Mar Cinese Meridionale.”

La nuova strategia (Asia Pivot) ha già avuto chiari effetti in termini di riassetto e riorganizzazione delle risorse. Tra gli altri basta citare una maggiore attenzione alla politica dei singoli stati dell’area, l’incremento della presenza militare in Australia, numerose esercitazioni militari con paesi della regione (come India e Filippine) e una riorganizzazione dello schieramento dell’US Missile Defense, secondo molti analisti più chiaramente rivolto a contrastare la Cina.

USS Peleliu LHA 5 in the South China SeaTutto questo all’interno di un quadro militare, in cui gli Stati Uniti, nonostante i progressi cinesi, sembrano dominare ancora ampiamente lo scenario. La Repubblica Popolare rilascia pochi dati sulla propria spesa militare, ufficialmente spende circa 90 miliardi di dollari l’anno (circa il 10% della spesa USA), alcune stime parlano di somme superiori intorno ai 111 miliardi, per quanto sia difficile valutare la reale entità degli investimenti militari del paese, che in ogni caso parte da una base tecnologica molto inferiore.

Gli strateghi di Washington sembrano, però, considerare un disastro la possibilità che la marina USA non sia 5 volte superiore a quella cinese e russa messe insieme, evento al momento molto improbabile. Se si considerano anche gli investimenti militari dell’ex avversario della Guerra Fredda, la spesa combinata toccherebbe circa i 142 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti complessivamente, da soli, al contrario, nel 2011, rappresentavano il 46% della spesa mondiale in armamenti.

La crescita dell’influenza cinese e l’atteggiamento maggiormente aggressivo vanno inquadrati in questo complesso contesto, che non ne nega la crescente centralità strategica, ma sminuisce i facili allarmismi. Tanto più, che non tutti sono convinti che la maggiore aggressività sia riconducibile ad una precisa strategia.

Terry McCarthy, presidente del Los Angeles World Affairs Council e corrispondente di diverse importanti testate internazionali, ritiene, ad esempio, che le recenti iniziative cinesi derivino più da una mancanza di coordinazione strategica e dispersione del potere all’interno della burocrazia cinese che da una precisa volontà strategica. La forte divisione in fazioni porterebbe ad una situazione di mancanza di controllo centrale e di accentuazione dei tratti nazionalistici da parte delle singole fazioni o dei singoli politici e generali, intenzionati a conquistare il sostegno popolare e maggiore potere, con un conseguente ‘involontario’ incremento della tensione internazionale. Naturalmente questo scenario non è necessariamente più rassicurante, come lo stesso McCarthy conclude. “Il maggiore pericolo nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale non è una campagna meticolosamente pianificato da parte della Cina per sottomettere i vicini, ma una crisi accidentale provocati da ufficiali troppo zelanti che operano nel vuoto politico. Questo è lo scenario davvero spaventoso.”

Xi-JinpingI rapporti tra militari e potere politico in Cina sono, d’altra, parte una delle questioni chiave per il futuro del paese. E sono stati ingigantiti dall’accresciuto potere militare dovuto: ai forti investimenti e alla modernizzazione dell’esercito, uniti ad un potere politico traballante  e sempre più corrotto. La questione definirà fortemente la futura presidenza del neo-nominato, Xi Jinping. Il fazionismo acuto, unito alle tensioni con i militari, alla corruzione e al crescente malcontento popolare pongono Xi in una difficile situazione; per quanto secondo diversi commentatori si trovi in una posizione di potere incerta e da consolidare, ma migliore dell’attuale presidente.

I governi mondiali, naturalmente, si interrogano su quali cambiamenti potrà apportare alla politica estera del paese e si domandano se sarà capace di rinsaldare il potere del partito comunista, mantenendo unito lo stato scosso da tensioni autonomiste e malcontento sociale. Le informazioni disponibili sembrano indicare una sostanziale continuità con la politica precedente di graduale incremento dell’influenza internazionale del paese e difesa degli interessi ritenuti non rinunciabili. Durante un recente viaggio negli USA (Febbraio, 2012) Xi ha ribadito la volontà di cooperare con il paese ospite, ma contemporaneamente la necessità che vengano rispettati reciprocamente i “core interests” delle due super-potenze. Il neo-leader di certo non vorrà, inoltre, mostrare nessuna debolezza su questioni importanti per il futuro energetico e militare del paese e care al popolo cinese, come le dispute territoriali nei Mari Cinesi; vista la fragilità del potere politico e della sua leadership.

La presidenza di Xi Jinping, in un simile contesto internazionale e vista la difficile situazione interna, rappresenterà, in un modo o nell’altro, un momento decisivo per la Cina e per l’intero globo; in grado di definire, probabilmente, gli equilibri di potere del 21esimo secolo.


[1] President Barack Obama, Remarks By President Obama to the Australian Parliament, November 17, 2011.

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